
Per l’altra isola, la Sardegna, bisognerà anzitutto tener conto di una ragione che abbiamo visto valere anche per la Sicilia, e lo si vedrà per qualsiasi provincia dialettale “isolata”. Intendiamo la mistica della regione come “piccola patria”, incubatrice secolare di tradizioni e di folklore antichissimi, in qualche caso addirittura preistorici (come la Sardegna), per cui ogni prodotto letterario è come circonfuso di un sottinteso agiografico: dal calore di una dedizione che è l’atteggiamento tipico di quei poeti confinati in solitudini paesane a esasperare il loro naturale affetto per la terra che li ha visti nascere; di qui il dilatato bisogno di farsi “cantori” di questa terra, nazione solo linguisticamente, e ridotta, da una storia che realmente passa solo per il centro e esclude le aree marginali, a consolarsi con un’epica della miseria, dell’abbandono, del lavoro. Sì che ogni sentimento della storia finisce per l’annichilirsi, in quei poeti, fino a farsi puro, sentimentale atto d’amore, immobile come appunto la loro storia. Non c’è a chi sfugga così il carattere “reazionario” delle autonomie regionali: come risultato per esempio di quel momento romantico che vorrebbe lo scrittore non esistesse, ma fosse anonimo demiurgo di una profonda, autoctona anima popolare, dove il parlante acquista un’irrazionale figura di perfezione non solo linguistica ma anche più largamente umana ed etnica. Questo eccesso d’amore, questo recupero nel sentimento di una validità di esistenza che nella realtà non esiste, perché la realtà significa fame, ingiustizia, ignoranza, finisce col togliere al poeta la capacità di vedersi chiaramente intorno, di scoprire l’autentica bellezza (che egli idealizza con processo aprioristico) del suo paese”.
Extrait d’une présentation de la poésie sarde par Pier Paolo Pasolini (1952) retranscrite ici dans Il manifesto sardo. Nous en proposerons une traduction bientôt dans Era pura luce.